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L'empatia nello sviluppo atipico

La maggior parte degli studi sull’empatia si è occupata di bambini con sviluppo normale, mentre si sa ancora poco sulle manifestazioni dell’empatia nello sviluppo atipico. Ricordiamo brevemente cos’è l’empatia: è un’esperienza complessa e multidimensionale, in cui si condivide affettivamente l’emozione che l’altro sta vivendo e in cui entrano in gioco forme di mediazione cognitiva sempre più elaborate. L’empatia, quindi, presenta una dimensione affettiva, una dimensione cognitiva e implica la relazione con gli altri. E’ proprio quest’ultima ad essere maggiormente compromessa quando parliamo di autismo(L’autismo infantile è un grave disturbo dello sviluppo che interessa circa 4 bambini su 10000. Attualmente i criteri per la sua diagnosi sono di tipo comportamentale e il principale sintomo che si può identificare in maniera affidabile è un deficit della comunicazione verbale e non verbale. Questo deficit fa parte della caratteristica centrale dell’autismo infantile, cioè una grave compromissione della capacità di comprendere l’ambiente sociale e interagire con esso. Il sintomo patognomico è l’incapacità di sviluppare relazioni sociali normali (American Psichiatric Association, 1994; Kanner, 1943; Rutter, 1978).

I bambini autistici, in termini concreti, manifestano delle anomalie in diversi comportamenti non verbali che regolano la comunicazione con gli altri (evitano lo sguardo diretto, sono poco espressivi, rigidi nelle posture, ecc.) e hanno grosse difficoltà a instaurare relazioni adeguate con i compagni (scarso interesse a fare amicizia o incapaci nel comprendere le convenzioni che regolano l’interazione sociale).

Gli studi presenti su questo argomento, si sono focalizzati soprattutto su quelle forme di autismo in cui non si riscontra ritardo mentale, detto autismo ad alto funzionamento. Spesso nei diversi studi si riscontrano delle contraddittorietà: questo perché nella definizione nosografica di autismo non vi sono parametri oggettivi di riferimento, ma sono compresi bambini autistici, bambini con tratti autistici, bambini autistici ad alto funzionamento, bambini con sindrome di Asperger e ciò porta difficilmente a costituire campioni omogenei (Larcan, Filippello, 2008).

Tra i diversi studi, ricordiamo quello di Bacon e collaboratori (Fein, Morris, Waterhouse, Allen, 1998), che mettono in luce come i bambini che presentano questa sindrome manifestano difficoltà in diversi compiti che riguardano la capacità di comprensione dei vissuti degli altri. Essi, infatti, non riescono facilmente a riconoscere e condividere le emozioni di chi gli sta accanto e non riescono a capirne il significato in termini affettivi. Inoltre, hanno difficoltà nel comprendere quali sono i contesti appropriati in cui si esprimono le varie emozioni e in che modo le espressioni facciali, vocali e gestuali sono collegate tra loro. Infine, falliscono anche nei compiti di social refering(Il social refering compare normalmente intorno ai 9-10 mesi e si lega principalmente alla formazione del sistema di attaccamento. Per questo, per molto tempo, si è pensato che i problemi dei bambini autistici fossero legati alla mancata formazione del legame di attaccamento durante il primo anno di vita, creando forti sensi di colpa nelle madri, ritenute responsabili del disturbo (Larcan, Filippello, 2008), vale a dire che quando si trovano di fronte uno stimolo ambiguo o sconosciuto, non osservano le espressioni dell’adulto, che potrebbero fornire loro informazioni su come comportarsi.

Gli Autori hanno condotto uno studio su 148 bambini di età prescolare, di cui 18 con sviluppo normale, 26 affetti da autismo ad alto funzionamento e i restanti affetti da altri disturbi (autismo a basso funzionamento, ritardo mentale e disturbo del linguaggio). In questa ricerca lo sperimentatore finge di farsi male e inizia a lamentarsi per poter osservare la reazione del bambino a questa situazione: i bambini con autismo ad alto funzionamento cognitivo mostrano meno comportamenti empatici dei bambini con sviluppo tipico e prestano meno attenzione di tutti gli altri gruppi alle espressioni sofferenti dell’adulto (Bacon et al., 1998).

Nella stessa ricerca, gli Autori creano una situazione sperimentale per sollecitare comportamenti prosociali: in un primo momento, lo sperimentatore si lamenta della scomparsa di un oggetto a lui caro, poi chiede al bambino di aiutarlo a trovarlo. I bambini affetti da autismo ad alto funzionamento, in questa situazione, raramente prendono l’iniziativa di aiutare lo sperimentatore ma, quando gli viene esplicitamente chiesto, solitamente intervengono (Bacon et al., 1998).

Un altro studio, condotto da Yirmiya e collaboratori (Sigman, Kasari, Mundy, 1992), ha indagato la capacità empatica di bambini autistici ad alto funzionamento utilizzando uno strumento che si fonda sui resoconti verbali dei bambini. Lo studio viene condotto su due gruppi: uno composto da bambini autistici che non presentano ritardo mentale, l’altro composto da bambini con un normale processo di sviluppo. I risultati ottenuti in questo studio dai bambini autistici sono stati sorprendenti. Infatti, i bambini affetti da autismo si sono dimostrati capaci nel dare esempi dei propri stati d’animo, e alcuni di loro sono stati in grado anche di riconoscere le emozioni dell’altro, di rispondervi empaticamente e di mettere in atto delle rudimentali capacità di role taking. Mettendo a confronto i risultati di questo studio con quello di Bacon (1998), sembrerebbe che l’assenza di restrizioni ambientali e temporali nello studio di Yirmiya (Yirmiya et al., 1992) abbiano facilitato il compito di esprimersi sulle emozioni nei bambini autistici. Dagli studi su menzionati sembrerebbe che, nonostante il disagio che i bambini autistici provano quando devono interagire con gli altri in situazioni reali, se si richiede loro di riflettere sul vissuto di una persona con cui non stanno interagendo (ad es. quando vedono dei filmati), i bambini mostrano di essere in grado di empatizzare con il vissuto dell’altro.

Dagli studi di Uta Frith (2005), che ha confrontato bambini autistici, bambini con disturbi di apprendimento e bambini normali, è emerso che tutti i bambini osservati sono in grado di manifestare risposte emotive e affettive adeguate. Anche da altre ricerche (Tomasello, Kruger, Ratner, 1993; Carpenter, Call, Tomasello, 2002) risulta che la capacità di attribuire intenzioni e desideri al proprio e all’altrui comportamento è presente nei bambini autistici, e nonostante le loro difficoltà, essi esibiscono performance sufficientemente appropriate nella comprensione delle intenzioni. Le ricerche di Philips, Baron-Cohen e Rutter (1998) hanno comparato il comportamento dei bambini autistici con quello dei bambini con altra tipologia di ritardo evolutivo, trovando nei bambini autistici una minore capacità nell’identificare l’intenzione di un’altra persona. Russel e Hill (2001), invece, non hanno riscontrato differenze tra bambini con autismo e bambini normodatati, sul compito precedentemente utilizzato da Philips (1998).

I risultati sono discordanti, ma ciò potrebbe essere dovuto, come già detto prima, all’eterogeneità dei campioni esaminati.

Altri studi, invece, focalizzano l’attenzione sui precursori della teoria della mente, come la rilevazione della direzione dello sguardo e il meccanismo di attenzione condivisa (Baron-Cohen, 1995). Per quel che riguarda il primo precursore, sembrerebbe che i bambini autistici, pur avendo carenze significative nel contatto oculare, sono in grado di rilevare negli altri la direzione dello sguardo. Il meccanismo di attenzione condivisa, invece, permette di comporre relazioni triadiche tra il sé, un oggetto e un’altra persona: la condivisione dell’attenzione coinvolge due meccanismi, vale a dire, il controllo dello sguardo e l’indicazione protodichiarativa. Nello sviluppo normale, i bambini sono in grado di esibire entrambi i tipi di funzione, mentre nei bambini autistici permane nel tempo l’assenza dell’indicazione protodichiarativa, e ciò è un importantissimo indizio per un accertamento diagnostico precoce (Surian, 2005). Questa carenza, o assenza, dei gesti protodichiarativi, potrebbe essere spiegata dalla loro incapacità di rappresentarsi stati attentivi, per cui l’inceppo nei bambini autistici sarebbe proprio durante il processo di sviluppo della Teoria della Mente. Quest’ultima è fondamentale per raggiungere la consapevolezza dell’esistenza, in sé e negli altri, di stati mentali epistemici, come pensare, sapere, credere, immaginare, sognare, indovinare, ingannare, e di stati motivazionali, come volere e desiderare (Baron-Cohen, 1995).

Quindi, secondo la teoria della cecità mentale, i bambini con disturbi dello spettro autistico presentano un ritardo nello sviluppo della teoria della mente, cioè della capacità di mettersi nei panni degli altri, di immaginare i loro pensieri e sentimenti (Baron-Cohen, 1995; Baron-Cohen, Leslie, Frith, 1985). Tuttavia, la teoria della cecità mentale non è in grado di spiegare le caratteristiche non sociali dei disturbi dello spettro autistico: infatti, mentre la lettura della mente è una componente dell’empatia, l’empatia autentica richiede una risposta emotiva allo stato mentale di un’altra persona (Davis, 1984). Molti soggetti con disturbo autistico si sentono disorientati quando si trovano di fronte alle emozioni altrui, perché non sanno come comportarsi (Grandin, 1996).

Per questo, la teoria della cecità mentale è stata rivisitata, cosicché, da una parte, possa spiegare le difficoltà sociali e di comunicazione nei disturbi dello spettro autistico attraverso il riferimento a ritardi e deficit di empatia, dall’altra possa spiegare le aree di forza attraverso il riferimento alle abilità integre o addirittura superiori nella sistematizzazione(Baron-Cohen, 2002). Secondo questa teoria, denominata dell’empatia-sistematizzazione (E-S), le probabilità di sviluppo di un disturbo dello spettro autistico sarebbero determinate dalla discrepanza tra empatia e sistematizzazione(La sistematizzazione è la tendenza ad analizzare o costruire sistemi di qualsiasi tipo. Ciò che definisce un sistema è il fatto che segue delle regole, e quando sistematizziamo cerchiamo di individuare le regole che governano il sistema per prevedere come esso si comporterà (Baron-Cohen, 2006).Mentre l’empatia al di sotto della media spiega le difficoltà sociali e di comunicazione, la sistematizzazione nella media o sopra la media spiega gli interessi ristretti, i comportamenti ripetitivi e la resistenza al cambiamento. Inoltre, secondo questa teoria, le persone con disturbo dello spettro autistico possono essere considerate come aventi una spiccata tendenza a ricercare la verità, intesa come un modello preciso, affidabile, coerente e regolare e, perciò, Baron-Cohen (2006) considera il cervello autistico il massimo rilevatore di modelli e verità. Per questo motivo, le persone con disturbo dello spettro autistico presentano grosse difficoltà con l’empatia e scarso interesse verso temi come la pura fantasia, la finzione o l’inganno poiché non sono orientati alla verità. Sembrerebbe quindi ragionevole affermare che l’empatia è impossibile senza avere la capacità di giocare con la verità e di sospenderla.

La teoria E-S, quindi, non si concentra solo sulle aree di difficoltà (empatia) ma anche su quelle di forza (sistematizzazione), considerando i disturbi dello spettro autistico non come una malattia ma come una differenza di stile cognitivo che rientra in un continuum di differenze riscontrabili in ogni persona (Baron-Cohen, 2009).

Da questa teoria innovativa si stanno sviluppando nuovi interventi, soprattutto usando le forti abilità di sistematizzazione per insegnare l’empatia, ad esempio presentando le emozioni attraverso modalità “su misura” di autismo (Baron-Cohen 2007). Ad esempio, nel film di animazione per bambini “The transporters” (www.thetransporters.com) vengono mostrati visi di attori in carne e ossa, che producono espressioni facciali di vario tipo, apposti su sistemi meccanici come treni e tram che si muovono in modo altamente prevedibile lungo tragitti fissi. In questo modo anche i bambini piccoli con autismo sono portati a guardare i volti insieme ai tipi di materiale intrinsecamente gratificanti per loro (Golan, Baron-Cohen, Ashwin 2010). Questi approcci, che si sono dimostrati efficaci per migliorare il riconoscimento delle emozioni,adattano le informazioni allo stile di apprendimento del bambino, così da facilitarne l’elaborazione.

Vediamo, quindi, come sono soprattutto gli studi più recenti ad interrogarsi sulla capacità dei bambini autistici di provare empatia, vale a dire, riconoscere e provare la stessa emozione di un altro e nel regolare, in funzione di ciò, il proprio comportamento.

Uta Frith (2005) distingue la “simpatia” dall’“empatia”, ovvero l’empatia istintiva da quella intenzionale. L’empatia istintiva consiste in una serie di risposte involontarie e non è correlata con la capacità di mentalizzare (studi neurologici mostrano che le risposte di paura e tristezza vengono registrate anche quando non vi è consapevolezza). L’empatia intenzionale richiede invece la capacità di comprendere gli stati mentali ed emozionali degli altri e comportarsi di conseguenza. Il bambino autistico è in grado di provare empatia istintiva, ma solo in riferimento alle emozioni di base (gioia e dolore), mentre ha difficoltà a decodificare le emozioni complesse e comunque tutte le emozioni che implicano stati mentali. Studi fatti su bambini di età prescolare, per comprendere se essi siano in grado di interpretare le emozioni come sentimenti privati e separati sia dalle situazioni che li provocano, sia dalle espressioni facciali, hanno messo in evidenza una carenza di questa capacità: i bambini autistici hanno difficoltà a comprendere l’orgoglio, l’imbarazzo, lo sdegno, la modestia, il godere dei successi o fallimenti altrui, proprio perché non sono in grado di collegare le emozioni agli stati epistemici e motivazionali che li hanno generati (Castelli, 2005).

Questa difficoltà potrebbe essere dovuta dal fatto che i bambini autistici tendono a insistere su particolari periferici e irrilevanti, sovraccaricando la memoria e non riuscendo ad accedere a livelli più profondi di elaborazione delle informazioni. Si entrerebbe, quindi, in un circolo vizioso: a seguito dell’inadeguatezza del sistema percettivo e dell’incompleta elaborazione delle informazioni sociali, i bambini autistici sarebbero indotti a emettere comportamenti che, per la loro incongruenza con il contesto, sono solitamente seguiti da feedback negativi. Ciò porterebbe i bambini autistici a vivere le situazioni sociali con disagio e ansia, per cui rispondono con l’evitamento, che, a lungo andare, si trasforma in incompetenza sociale. Bisognerebbe cercare di far apprendere ai bambini una serie di abilità prerequisite, prima che essi si rendano conto che vi sono due tipologie di comportamenti nelle persone, vale a dire, i comportamenti overt (azioni esplicite che si percepiscono in maniera diretta) e i comportamenti covert (i pensieri, i sentimenti, le intenzioni, i desideri). Successivamente bisognerebbe far comprendere ai bambini qual è la relazione tra queste due tipologie. Nei bambini autistici l’acquisizione di queste competenze e cognizioni è difficile, e per questo sono richiesti training specifici che, purtroppo, non sempre hanno successo.

Nella maggior parte dei casi, gli interventi rivolti a bambini autistici sono finalizzati all’acquisizione di abilità sociali e non prendono in considerazione lo sviluppo delle abilità prerequisite. Accade spesso che i bambini, nonostante apprendano le abilità insegnate, non riescano a generalizzarle. Per avere un intervento di successo, lo si deve strutturare seguendo la sequenza evolutiva tipica e non passando allo step successivo se il precedente non si è sufficientemente consolidato e generalizzato (Larcan, Filippello, 2008).

Partendo dal presupposto che i bambini autistici mostrano un limitato comportamento dell’attenzione congiunta, vale a dire, la ricerca di riferimento, il controllo dello sguardo e il gesticolare (Charman, Sweettenham, Baron-Cohen, Cox, Baird, Drew, 1997), diverse ricerche hanno dimostrato che l’esercitazione di bambini autistici può migliorare le loro capacità di interazione sociale (Hwang, Hughes, 2000). Uno studio recentissimo (Ezell, Field, Nadel, Newton, Murrey, Siddalingappa, Allender, Grace, 2012), in combinazione con i risultati di Field e collaboratori (Field, Sanders, Nadel, 2001), ha messo in evidenza il ruolo dell’imitazione come intervento: sembrerebbe che i bambini molto piccoli rispondano positivamente quando vengono imitati, aumentando sia i comportamenti sociali distali (l’attenzione) che prossimali (il toccare) durante e dopo le interazioni imitative. I risultati dello studio evidenziano l’efficacia dell’imitazione con bambini autistici in età prescolare (dai quattro ai sei anni), in particolare sui comportamenti di ricerca di riferimento e di controllo dello sguardo. Nello studio menzionato, si è lavorato con l’imitazione poiché si sostiene che essa offre due funzioni fondamentali per un sano sviluppo, cioè la comunicazione e l’apprendimento (Nadel, Revel, Andry, Gaussier, 2004). Inoltre, si evidenzia l’associazione tra il comportamento sociale-affettivo e comunicativo, ma bisogna essere cauti nel generalizzare e nell’interpretare questi risultati, poiché sono necessarie ulteriori ricerche (Ezell et al., 2012).

Secondo Larcan e Filippello (2008), bisognerebbe ampliare la conoscenza e la comprensione delle emozioni e degli stati mentali, epistemici e motivazionali, in loro stessi e negli altri, e successivamente guidare gradualmente il bambino ad applicare queste conoscenze nelle situazioni reali della loro quotidianità. Ciò significa che, per costruire una sufficiente competenza sociale in questi bambini, si dovrebbe realizzare una sorta di “controcondizionamento”: l’apprendimento di abilità prerequisite elementari dovrebbe far aumentare gradualmente la probabilità di emissione di comportamenti adeguati e congruenti rispetto al contesto e quindi di ricevere feedback positivi. Ciò dovrebbe produrre una riduzione dell’ansia e un graduale riavvicinamento alle situazioni sociali, facendo di conseguenza aumentare le opportunità di apprendimento e di rafforzamento e generalizzazione delle abilità acquisite. L’intervento, secondo le linee generali del National Research Council (2001), in età prescolare deve essere: precoce, intensivo e curriculare. La precocità, infatti, permette di agire in un periodo in cui le strutture encefaliche non hanno assunto una definita specializzazione funzionale e le funzioni mentali sono in fase di attiva maturazione e differenziazione (Guralnick, 1998; Dawson, Meltzoff, Osterling, Rinaldi, 1998). Il termine intensivo, invece, si riferisce alla necessità di attivare una nuova dimensione di vita, per il bambino e per la famiglia: significa riorganizzare i tempi, gli spazi e le attività del bambino e, per fare ciò, è necessaria la collaborazione tra i genitori, i terapisti e gli insegnanti (Prizant, Wetherby, Rubin, Laurent, 2003). Infine, il termine curriculare si riferisce sia ai contenuti del programma, sia alla necessità di una definizione chiara degli obiettivi e di un monitoraggio sistematico del percorso terapeutico.

Negli ultimi decenni la ricerca sull’autismo è aumentata sensibilmente: le nuove tecnologie hanno fatto fare passi da gigante alle teorie esplicative di carattere neuropsicobiologico, evidenziando deficit a livello strutturale e soprattutto funzionale dell’autismo e dei diversi disturbi generalizzati dello sviluppo.

Il rischio, però, è che l’enfasi posta sulla ricerca etiopatogenetica faccia perdere di vista l’obiettivo primario a chi si occupa di educazione e di riabilitazione: il tentativo, cioè di coniugare i progressivi e promettenti esiti della ricerca neuroscientifica con l’esigenza di progettare e implementare interventi sempre più mirati e di verificarne l’efficacia nella prassi operativa.

Anche se l’apprendimento di queste abilità non risolverà il danno biologico di questi bambini, certamente li metterà nelle condizioni di adattarsi e integrarsi meglio, ovvero di interagire nel mondo in maniera socialmente più efficace. Bisognerebbe, pertanto, spendere energie nella progettazione e sperimentazione di training di apprendimento che possano risultare efficaci e produttivi per il benessere sia dei bambini che delle loro famiglie, focalizzandosi gradualmente, durante l’intervento, sulle specifiche carenze (Larcan, Filippello, 2008).


Dott.ssa Sara Cerasuolo

(Dalla tesi “I percorsi dell’empatia”)





 
 
 

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